Fermiamo il massacro dei palestinesi a Gaza! Sabato 17 gennaio 
2009 manifestazione nazionale a Roma

Fermiamo il massacro dei palestinesi a Gaza!

Sabato 17 gennaio 
2009 – manifestazione nazionale a Roma

Basta con l’impunità del terrorismo di stato israeliano
Rompere ogni complicità politica, militare e economica
tra lo Stato italiano e Israele
Le bombe uccidono le persone,
l’informazione manipolata uccide le coscienze

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ROMA Sabato 17 gennaio 
Manifestazione nazionale
Partenza ore 15.30 da piazza Vittorio (vicino la Stazione Termini)
Percorso: via dello Statuto, via Merulana, Santa Maria Maggiore, via Cavour, via dei Fori Imperiali, Colosseo, via San Gregorio, Circo Massimo, viale Aventino, Porta S. Paolo (comizio conclusivo)

ASSISI Il Prc aderisce anche alle iniziative della Tavola della Pace ad Assisi
INFO sul sito www.perlapace.it

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REPORTAGE DA GAZA
Sotto le bombe, quei piccoli figli d’un Allah minore
Vittorio Arrigoni per il manifesto 14.1.2009
GAZA CITY – I figli di un Allah minore, che il rifugio nell’abbraccio delle madri e dei padri una folgore dal cielo ha per sempre spezzato, continuano a espiare l’eredità di un odio tramandato di generazione in generazione per una colpa che non hanno mai commesso. I soldati con la Stella di David si calano nel ruolo di tanti Erode contemporanei, già 253 i bimbi palestinesi massacrati. Un orrore senza fine, per il quale nessun soldato, nessun ufficiale dell’esercito israeliano, nessun governo israeliano è mai stato messo dinnanzi alle sue responsabilità di criminale di guerra. Se per qualche ora queste vittime innocenti vengono graziate, non è così per i luoghi che ospitano i loro giochi, i sogni e le ambizioni di diventare adulti, quei padri e quelle madri che a loro sono stati strappati. Gli orfanotrofi sono diventati il nido preferito per gli uccelli meccanici israeliani, negli orfanotrofi i caccia vanno a deporre le loro bombe. I compagni dell’Ism da Rafah mi scrivono: «Domenica 11 gennaio, approssimativamente alle 03:00 am, caccia F16 hanno bombardato il centro per orfani dell’associazione Dar al-Fadila, che includeva una scuola, un college, un centro informatico e una moschea in Taha Hussein Street, nel quartiere Kherbat al-‘Adas a nord est di Rafah. Parte degli edifici sono andati completamente distrutti e quelli ancora in piedi sono seriamente danneggiati. La scuola assisteva circa 500 bambini senza più genitori».
La personalissima Jihad israeliana contro i luoghi sacri dell’Islam lungo la Striscia continua, contando la moschea di Kherbat al-‘Adas, sono 20 le moschee rase al suolo. Fortunamente nessu razzo Qassam ha ancora sfiorato le pareti di una sinagoga. Siamo certi che altrimenti avremmo giustamente avvertito levarsi al cielo grida di sdegno da ogni angolo del mondo, mentre non ci meravigliamo più se nessuno protesta contro questa massiccia campagna anti-slamica. Dio deve pagare il prezzo di ricevere preghiere dai palestinesi. Quasi 950 vittime, l’85% sono civili.
L’infernale macchina di distruzione israeliana continua lentamente ad avanzare ed avvolgere tutta Gaza, abbattendo case, scuole, università, ospedali, senza nessun tangibile segnale né volontà di sabotaggio da parte della comunità internazionale. Sabotare l’avanzata della morte travestita da tank e caccia per savaguardare la vita. E’ giunto allora il nostro turno, noi, semplici cittadini senza cittadinanza se non quella di ritenerci appartenenti ad una sola unica famiglia, la famiglia umana, è ora che infiliamo un bastone in questo ingranaggio infernale.
Ho incontrato il dottor Haidar Eid, professore dell’univesità Al Quds di Gaza city. Un intellettuale di sinistra, coriaceo e insieme ilare, passionale, generoso, come in Italia non se ne vedono più, estinti o deposti in qualche scantinato della memoria perché non riciclabili con la linea bipartisan che fa sfilare a braccetto post-fascisti e post-comunisti, uniti in comune litania a giustificare Israele per ogni suo massacro. Haider dinnanzi a me si fa portavoce del Pacbi (The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel: http://www.pacbi.org/) e del Bnc (The Boycott, Divestment & Sanctions Campaign National Committee: http://bdsmovement.net/) e con lui ho discusso di boicottaggio.La storia insegna ma non ha alunni. E Mandela e il Mahatma Gandhi sono al momento impossibilitati a concedere ripetizioni. Ma c’è la storia specifica del Sudafrica a indicarci la strada per costringere Israele razzista e colonialista e giungere ad un compromesso.
Non boicottare allora quel regime di apartheid fu considerato un po’ come esserne complici, cosa cambia oggi? Come me, la stragrande maggioranza dei palestinesi, non crede che la miglior risposta all’occupazione israeliana e a questo massacro in corso siano gli attentati, i kamikaze e i razzi su Sderot. Il boicottaggio è pacifista, nonviolento, la migliore risposta umanamente accettabile, all’imbarbarimento di un conflitto che rende disumano ogni gesto. La migliora arma nell’arsenale della non violenza, come ci ha ricordato Naomi Klein in un recente editoriale su il Guardian. Heidan riesce a trarre qualcosa di positivo dalla pozza di sangue in cui stiamo affondando. Come fu dopo il massacro di Sharpeville, 21 marzo 1960, quando 78 neri furono fatti a pezzi per volontà di un regime barbaro in Sudafrica, e il mondo si sentì in dovere di dire basta, l’incomparabile massacro di mille civili palestinesi potrebbe dare il via ad una altrettanta forte campagna di mobilitazione per punire i crimini israeliani. Heiden è anche uno dei fautori di Israele e Palestina uniti in un unico stato, secolare, democratico e interreligioso, per lui unica e pragmatica via di uscita da un conflitto che non vede altre risoluzioni. Più intimamente mi parla della Nakba, che lui ha scampato per pochi anni, ma intensamente rivissuto nei racconti tramandati per via orale dai suoi familiari. Mi parla a chiare lettere, lui figlio del post-catastrofe, di come la Nakba è stata come tramandare di un incubo, che ha alimentato l’inconscio collettivo di migliaia di palestinesi. L’incubo si è rifatto vivo, ha bussato sui tetti delle case il 27 dicembre, e da allora non smette di mietere notti insonni.
Haiden mi invita a divulgare, e io registro sul mio taccuino, il suo appello per tutti gli italiani a non comprare più alcun prodotto Made in Israel. I prodotti israeliani si riconosco sugli scaffali, imbrattati di sangue, hanno un codice a barre che li contraddistingue: 729 le cifre iniziali. Per ricavare la lista completa dei prodotti è possibile accedere al sito
http://www.boycottisraeligoods.org/modules11748.php
Stampatevi la lista, appiccicatela sulla porta del frigo o infilatela nella borsa di vostra madre o vostra moglie quando si recano al mercato con la lista della spesa. «Se compri anche un solo bicchiere d’acqua proveniente da Israele, di fatto compri un anche un proiettile che prima o poi andrà a conficcarsi nel cuore di uno dei nostri figli».
Il movimento di boicottoggio che ha visto la luce nel 2005 in Palestina, sta facendo passi da gigante e si diffonde fra milioni di consumatori nel mondo. Il presidente venezuelano Chavez che ha espulso l’ambasciatore israliano e cessato ogni rapporto con lo Stato che ci sta strangolando è un esempio da incarnare per tutti i politici nostrani.
I leaders sudafricani dell’allora lotta contro il regime d’apartheid, Mandela, Ronnie Kasrils e Desmond Tutu affermano che l’oppressione israeliana contro i palestinesi è di gran lunga peggiore di quella del Sudafrica, voci un tantino più autorevoli di Frattini e Fassino. Diversi ebrei isrealiani si sono uniti alla campagna di boicottaggio, circa 500 finora, fra i quali Ilan Pappe e Neta Golan, sopravvisuti all’Olocausto che gridano «mai più». Il poeta israeliano Aharon Shabtai ci istiga ad agire: «Io spero nell’aiuto degli europei, che i discendenti di Voltaire e Rousseau aiutino Israele, perché Israele non finirà l’occupazione fin quando l’Europa non gli dirà “basta”. Solo una pressione da parte dei paesi civili e democratici può cambiare la situazione e riportarci la felicità. La situazione attuale – in cui a dettar legge è l’esercito – non può essere cambiata dall’interno. Per i valori di cui è portatrice, l’Europa non può continuare a collaborare con Israele».
729 deve diventare il nostro numero.
Restiamo umani.

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ARMI PROIBITE
Bombe al fosforo, spuntano le prime prove.
Le ong: mai più impunità – Agenzie dell’Onu e associazioni per i diritti umani stanno raccogliendo indizi per incriminare politici e militari di Tel Aviv

Michelangelo Cocco – il manifesto 14-1-2009
M825A1. Il ritrovamento di un pezzo di metallo con questo numero di serie ha aggiunto un’altra tessera al mosaico di prove raccolte da esperti e attivisti dei diritti umani che accusano Israele di utilizzare armi proibite contro i civili di Gaza.
Il frammento, raccattato da un palestinese e mostrato a un giornalista, secondo Marc Garlasco (analista militare di Human rights watch, Hrw) dimostra l’uso di munizioni al fosforo bianco, consentite per illuminare i campi di battaglia, ma vietate nei centri abitati: la sostanza chimica si attacca alla pelle e produce ustioni profondissime. Un portavoce dell’esercito è stato costretto a modificare la versione di Tel Aviv, che finora aveva negato l’impiego di queste armi. «Le munizioni che usiamo sono conformi al diritto internazionale», si è limitato a dichiarare Jacob Dallal al New York times, che ieri ha riportato la notizia della scoperta del proiettile al fosforo nel sud della Striscia. Da giorni i palestinesi denunciano l’utilizzo di queste armi, soprattutto a Beit Lahiya (al nord) e a Khan Younis (a sud). Fonti mediche palestinesi hanno riferito che in quest’ultima località una donna è rimasta uccisa e oltre 40 persone ferite a causa di bombardamenti al fosforo bianco.
«Ho visto almeno tre feriti con bruciature da fosforo bianco nell’ospedale Kamal Adwan e quattro in un altro nosocomio, l’Al Awda» denuncia al manifesto Salah Adel Adi, a capo del Palestinian progressive youth union nel campo profughi di Jabaliya. Adel Adi precisa che le truppe non avrebbero utilizzato la sostanza chimica nella baraccopoli da cui nel 1987 partì la prima intifada, ma nel villaggio di Jabaliya e nella vicina Beit Lahiya. Dagfinn Biorklid, un volontario norvegese che ha appena dato il cambio a un gruppo di medici che ha operato per due settimane nell’ospedale Al Shifa di Gaza city, racconta che l’altro ieri «abbiamo ricoverato due pazienti con bruciature compatibili con quelle causate dal fosforo bianco». E Physicians for Human Rights, una ong internazionale che si batte per il rispetto dei diritti umani, ha un video che documenterebbe l’uso delle munizioni proibite contro i civili. «L’abbiamo spedito a due esperti indipendenti affinché lo analizzino», ci spiega Ran Yaron, a capo del dipartimento Territori occupati della ong.
Rientrato in Norvegia dopo undici giorni all’Al Shifa, Mads Gilbert riferisce di «decine di pazienti con amputazioni estreme, ma senza frammenti metallici nei corpi straziati». Secondo l’anestesista – membro come Dagfinn dell’organizzazione umanitaria Norwac – si tratta di ferite perfettamente compatibili con quelle prodotte dalle bombe Dime (Dense inerte metal explosive), ordigni che in un raggio di dieci metri dal punto d’impattano disintegrano la parte inferiore dei corpi.
Gli operatori sanitari – quelli locali e i volontari internazionali – che dal 27 dicembre scorso sono impegnati a salvare quante più vite possibile sottolineano che la priorità assoluta in questo momento è quella di fermare tutti i bombardamenti, non solo quelli con presunte munizioni non convenzionali.
Ma il terreno sul quale alcune organizzazioni – agenzie delle Nazioni Unite e associazioni per la difesa dei diritti umani – stanno iniziando a muoversi è proprio quello di sondare la possibilità d’incriminare per «crimini di guerra» i vertici politici e militari dello Stato ebraico. Una strada in salita, ma che nell’utilizzo di armi non convenzionali contro la popolazione civile indifesa e di «scudi umani» – denunciato da Amnesty international – vede i capisaldi di un’eventuale incriminazione.

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Israele : boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni
10/01/2009
di Naomi Klein
È ora. Un momento che giunge dopo tanto tempo. La strategia migliore per porre fine alla sanguinosa occupazione è quella di far diventare Israele il bersaglio del tipo di movimento globale che pose fine all’apartheid in Sud Africa.
Nel luglio 2005 una grande coalizione di gruppi palestinesi delineò un piano proprio per far ciò. Si appellarono alla «gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica all’epoca dell’apartheid». Nasce così la campagna “Boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni” (Boycott, Divestment and Sanctions), BDS per brevità.
Ogni giorno che Israele martella Gaza spinge più persone a convertirsi alla causa BDS, e il discorso del cessate il fuoco non ce la fa a rallentarne lo slancio. Il sostegno sta emergendo persino tra gli ebrei israeliani. Proprio mentre è in corso l’assalto, circa 500 israeliani, decine dei quali artisti e studiosi rinomati, hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri di stanza in Israele. La lettera chiede «l’adozione immediata di misure restrittive e sanzioni» e richiama un chiaro parallelismo con la lotta antiapartheid. «Il boicottaggio del Sud Africa fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto… Questo sostegno internazionale deve cessare».
Tuttavia, molti ancora non ci riescono. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. E semplicemente non sono abbastanza buone. Le sanzioni economiche sono gli strumenti più efficaci dell’arsenale nonviolento. Arrendersi rasenta la complicità attiva. Qui di seguito le maggiori quattro obiezioni alla strategia BDS, seguita da contro-argomentazioni.
1. Le misure punitive alieneranno anziché convincere gli israeliani. Il mondo ha sperimentato quello che si chiamava “impegno costruttivo”. Ebbene, ha fallito in pieno. Dal 2006 Israele accresce costantemente la propria criminalità: l’espansione degli insediamenti, l’avvio di una scandalosa guerra contro il Libano e l’imposizione di punizioni collettive su Gaza attraverso un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto far fronte a misure punitive, ma anzi, al contrario: armi e 3 miliardi di dollari annui in aiuti che gli Stati Uniti inviano a Israele, tanto per cominciare. Durante questo periodo chiave, Israele ha goduto di un notevole miglioramento nelle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con moteplici altri alleati. Ad esempio, nel 2007, Israele è diventato il primo paese non latino-americano a firmare un accordo di libero scambio con il Mercosur. Nei primi nove mesi del 2008, le esportazioni israeliane verso il Canada sono aumentate del 45%. Un nuovo accordo di scambi commerciali con l’Unione europea è destinato a raddoppiare le esportazioni di Israele di preparati alimentari. E l’8 dicembre i ministri europei hanno “rafforzato” l’Accordo di Associazione UE-Israele, una ricompensa a lungo cercata da Gerusalemme.È in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra: fiduciosi di non dover affrontare costi significativi. È da rimarcare il fatto che in sette giorni di commercio durante la guerra, l’indice della Borsa di Tel Aviv è salito effettivamente del 10,7 per cento. Quando le carote non funzionano, i bastoni sono necessari.
2. Israele non è il Sud Africa. Naturalmente non lo è. La rilevanza del modello sudafricano è che dimostra che tattiche BDS possono essere efficaci quando le misure più deboli (le proteste, le petizioni, pressioni di corridoio) hanno fallito. Ed infatti permangono reminiscenze dell’apartheid profondamente desolanti: documenti di identità con codici colorati e permessi di viaggio, case rase al suolo dai bulldozer e sfollamenti forzati, strade per soli coloni. Ronnie Kasrils, eminente uomo politico sudafricano, ha detto che l’architettura della segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza nel 2007 è “infinitamente peggiore dell’apartheid”.
3. Perché mettere all’indice solo Israele, quando Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e in Afghanistan? Il boicottaggio non è un dogma, è una tattica. La ragione per cui la strategia BDS dovrebbe essere tentata contro Israele è pratica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio potrebbe effettivamente funzionare.
4. Il boicottaggio allontana la comunicazione, c’è bisogno di più dialogo, non di meno. A questa obiezione risponderò con una mia storia personale. Per otto anni i miei libri sono stati pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale chiamata Babel. Ma quando ho pubblicato “Shock Economy” ho voluto rispettare il boicottaggio. Su consiglio degli attivisti BDS, ho contattato un piccolo editore chiamato Andalus. Andalus è una casa editrice attivista, profondamente coinvolta nel movimento anti-occupazione ed è l’unico editore israeliano dedicato esclusivamente alla traduzione in ebraico di testi scritti in arabo. Abbiamo redatto un contratto che garantisce che tutti i proventi vadano al lavoro di Andalus, e nessuno per me. In altre parole, io sto boicottando l’economia di Israele, ma non gli israeliani.
Mettere in piedi questo programma ha comportato decine di telefonate, e-mail e messaggi istantanei, da Tel Aviv a Ramallah, a Parigi, a Toronto, a Gaza City. A mio avviso non appena si dà vita ad una strategia di boicottaggio il dialogo aumenta tremendamente. D’altronde, perché non dovrebbe? Costruire un movimento richiede infinite comunicazioni, come molti nella lotta antiapartheid ricordano bene. L’argomento secondo il quale sostenendo i boicottaggi ci taglieremo fuori l’un l’altro è particolarmente specioso data la gamma di tecnologie a basso costo alla portata delle nostre dita. Siamo sommersi dalla gamma di modi di comunicare l’uno con l’altro oltre i confini nazionali. Nessun boicottaggio ci può fermare.
Proprio riguardo ad ora, parecchi orgogliosi sionisti si stanno preparando per un punto a loro favore: forse io non so che parecchi di quei giocattoli molto high-tech provengono da parchi di ricerca israeliani, leader mondiali nell’Infotech? Abbastanza vero, ma mica tutti. Alcuni giorni dopo l’assalto di Israele a Gaza, Richard Ramsey, direttore di una società britannica di telecomunicazioni, ha inviato una e-mail alla ditta israeliana di tecnologia MobileMax. «A causa dell’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non saremo più in grado di prendere in considerazione fare affari con voi né con qualsiasi altra società israeliana.»
Quando è stato interpellato da The Nation, Ramsey ha affermato che la sua decisione non è stata politica. «Non possiamo permetterci di perdere neppure uno dei nostri clienti: è stata pura logica difensiva commerciale.»
È stato questo tipo di freddo calcolo che ha portato molte aziende a tirarsi fuori dal Sud Africa due decenni fa. Ed è proprio questo tipo di calcolo la nostra più realistica speranza di portare giustizia, così a lungo negata, alla Palestina.
Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip
Articolo orginale: http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?